“La storia la scrivono i vincitori” così nasce il complesso di San Francesco delle monache, sulla base di questo proverbio. Perché? Facciamo un passo indietro, solo di ottocento anni, sì perché la sua fondazione risale al 1230 (circa), epoca in cui il nucleo originario era un castello di proprietà della nobile famiglia aversana: i Rebursa. Questa appoggiò gli Svevi nelle lotte per il trono di Napoli, conquistato dopo numerose battaglie dagli angioini, i quali, sterminati i maschi gli uomini, concessero alle donne del clan aversano di tenere il loro possedimento in città, fuori le antiche mura, a condizione di convertirlo in un monastero.

 

La regola che abbracciarono fu quella che all’epoca stava dilagando in Europa, quella francescana. Sorvolando su improvvise folgorazioni religiose, di cui tuttavia non possiamo negare l’esperienza, le nobildonne si trovarono a dover rispettare l’ordine della clausura, ciò significa che nemmeno da morte poterono uscire dalle mura di quello che ormai era divenuto un convento.

Nel corso del tempo quello che oggi è chiamato chiosco piccolo venne ricoperto di affreschi, databili tra fine ‘200 e l’inizio del ‘300, questi rasentano l’allineamento della città di Aversa a quelli che sono gli sviluppi della pittura che derivò dal grande cantiere di Assisi a metà del XIII secolo.

Curiosità…. La cupola porta cicatrici, dall’interno visibili, di un fulmine che distrusse più di 150 mattonelle.

Un momento questo in cui la cultura non è appannaggio delle grandi corti come avvenne successivamente con il Rinascimento, questi sono gli anni in cui la civiltà italiana, seppur frammentata politicamente, raggiunse un livello molto elevato nelle arti, letteratura, giurisprudenza, matematica. Di questi affreschi oggi possiamo ammirare poche scene superstiti, venute alla luce coi lavori di restauro post terremoto del 1980.

Alla metà del ‘600, data la ricchezza e il prestigio assunto dal monastero che ospitava le nobili donne aversane che abbracciavano l’abito, furono eseguiti numerosi lavori, lo scopo era dare nuova veste all’antica chiesa. L’interno ancora oggi è straordinariamente decorato, negli anni infatti non ci sono stati grandi cambiamenti. Il contrasto tra i marmi policromi, tipica decorazione napoletana, e il soffitto interamente stuccato, di chiara ispirazione romana, è segno di una particolare simbiosi che potremmo definire “barocco aversano”, per questo motivo il complesso è soprannominato “la San Martino di Aversa” con chiaro riferimento alla ricchezza e allo sfarzo della Certosa di Napoli. Cosa significa trovare questa commistione? Apertura, la città era perfettamente inserita nel clima culturale del tempo, al punto da creare un proprio linguaggio artistico.

Sugli altari laterali troviamo tele di noti pittori del tempo, su tutti Francesco Barbieri, detto il Guercino. Per comprendere il livello di quest’ultimo va ricordato che la sua richiesta per ogni figura dipinta era di 120 scudi, da una lettera in risposta ad un committente siciliano il pittore di Cento rispose che in cambio di 80 scudi egli avrebbe avuto solo “poco più di mezza figura”. La tela aversana, recentemente attribuita, è affiancata da due statue, raffiguranti due angeli, molto interessante in quanto di chiara derivazione berniniana. Guarda il documentario sull’Assunzione della Vergine del Guercino.

Ad oggi possiamo ancora apprezzare lo splendido portone ligneo, con le incisioni dei titolari della chiesa, San Francesco d’Assisi e Santa Chiara. Le sue ante si aprirono definitivamente nel 1969 con la morte dell’ultima suora.

Questo portone racconta storie di vera devozione, venne aperto nel 1969 con la morte dell’ultima suora del monastero. Una volta attraversato non si tornava più indietro, le religiose erano le uniche a potervi entrare e non ne uscivano nemmeno da morte. Infatti, una volta decedute, venivano portate nello “scolatoio delle monache”. Venivano lasciate lì, appunto, a scolare, da qui nasce l’offesa napoletana “puozze sculà”. Questa parte del monastero era necessaria dato che i cimiteri non erano ancora diffusi, nelle buche sono ancora presenti i resti delle serve di Dio. Era altrettanto fondamentale la figura dello “schiattamuorto”, egli bucava le pance delle defunte per farne uscire i fumi che a loro volta defluivano dal foro presente sul soffitto. La bara presente sul suolo aveva come unica funzione il trasporto delle salme. Il pozzo al centro del chiostro veniva contaminato dai liquami delle defunte, che poi le suore inevitabilmente bevevano. In vita l’unico contatto con l’esterno che potevano permettersi avveniva tramite il “parlatoio delle monache”, attraverso il quale i visitatori donavano alimenti alle sorelle, che accettavano i doni tramite una “porticina rotante”.

Oggi il complesso non rende più l’idea della sua passata grandezza, l’ex chiosco grande è ormai aperto, la testimonianza è rappresentata dall’attuale Municipio, sede del governo cittadino