Articolo a cura di AversaTurismo
La storia non è solo quella che si legge abitualmente sui libri, non è soltanto un freddo susseguirsi di avvenimenti, di date e di guerre, ma è fatta da un insieme di tante piccole cose e di uomini che ne sono gli artefici. E ciò vale per la storia generale e per tante piccole storie locali che la compongono, in quanto ogni cosa che accade (anche in piccolo) è subito storia e, se trova qualcuno che la scrive, diventa di diritto universale.
Detto ciò, passiamo alla nostra storia, a quella che ci riguarda da più vicino e (che per averla vissuta) conosciamo passionalmente in trasparenza, nella sua peculiare colorazione ovvero sotto un aspetto principalmente folkloristico, limitando la trattazione ad alcuni tipici personaggi locali che vanno considerati nell’ambiente e nell’epoca in cui sono vissuti.
C’erano una volta
Protagonisti di questa nostra piccola storia di un tempo non molto lontano sono – abbiamo accennato – alcuni tipici personaggi locali, i quali facevano la ronda per le vie aversane vivendo di elemosina. Erano per Io più esseri semplici, come li aveva creati madre natura, che, costretti dalla necessità, recitavano la parte di se stessi naturalmente polarizzando l’attenzione dei passanti. Individui semplici – abbiamo detto – e al tempo stesso particolari che, per il loro comportamento e il loro fraseggio, rappresentavano delle figure simboliche, delle vere e proprie macchiette (più che maschere) paesane della più schietta tradizione nostrana.
Li riesumiamo allo specchio dei ricordi (senza voler fare torto a nessuno) sottraendoli, per un momento, alle ingiallite pagine del passato e li presentiamo di getto soprattutto a chi non ha avuto modo di conoscerli.
Enricuccio, il pezzente signore
Era costui nativo del vicino paese dei Marramaldo, dove viveva col padre in una stamberga dell’antico palazzo Donnorso. Alto di statura e piuttosto corpulento, rappresentava la tipica figura del pezzente buono se non altro per i suoi gentili modi di fare che lo rendevano molto simpatico alla gente.
Incideva possente con un passo marziale scalfendo il selciato con i suoi scarponi militari chiodati e slacciati, che emettevano il rumore di un reggimento di soldati. Portava sulle spalle, appesa ad un laccio, una capiente bisaccia per l’elemosina e si appoggiava ad un nodoso e lungo bastone che gli serviva, all’occorrenza, anche per grattarsi la faccia scorzuta, sempre allietata da un’ispida barba. Vestiva alla rinfusa panni impastrocchiati e mangiava in cammino, frugalmente, parte di quel po’ che la pietà umana gli regalava senza mai gettare nulla per terra, anzi badando, parsimonioso com’era, a conservare tutto.
Aveva un ossequio riverente per i passanti tanto che non osava mai fermarli frontalmente e li prendeva improvvisamente di fianco o di dietro, quasi in contropiede, esclamando ritmatamente: “Signò, vulite fa bbene o pezzente!”; e quand’anche la risposta fosse negativa, soleva ringraziare lo stesso e proseguiva scalpitando sul basolato come un bisonte inseguito.
Di lui si diceva fosse stato sfiorato, giovanissimo, da una folgore, in aperta campagna, che l’aveva ridotto a tanto e molti erano gli aneddoti che corredavano la sua misera vita, come quello fantasioso di quando faceva il tagliamonte (tagliatore di pietre nelle cave di tufo) che non riferiamo perché riteniamo troppo offensivo per la dignità dell’uomo. Un uomo dall’animo bonario si ma che aveva, come pochi altri simili a questo mondo, una sua impeccabile personalità, di cui mostrava di essere addirittura geloso.
Arcinote erano le sue risposte, pregne di genuina sapienza. A chi, ad esempio, gli chiedeva di botto: “Erricù, te piace a pizza o a mugliera”, rispondeva sicuro: “A pizza, a pizza pecché a mugliera n’à pozzo mantenè” e tirava avanti apparentemente arrabbiato.
In cambio di qualche lira, su richiesta, faceva il passo da soldato, di quasi due metri di lunghezza, battendo pesantemente i piedoni per terra che causavano scintille e si allontanava con un “Buongiorno, signurì…. frisc’allanema e tutte e muort vuoste”.
A questa cara, indimenticabile figura, a questo signore della povertà, oggi non più tra noi, l’amico Casolini ha dedicato una sua lirica. Eccone i versi:
Alto, erculeo, maestoso incideva.
Simil al figlio di Latona per campi achivi.
Non sugli omeri la faretra di ferali quadrelle carca.
Ma una lorda bisaccia di tozzi piena
che la pietade del popolo aveva donati.
La fronte, non sigillo divino;
ma dignitosa e fiera d’un delfino.
Sciolto non era il suo dire,
balbettando il suo patire.
– L’elemosina fate, signori,
fame, sete, freddo noi sentiamo –
Lacero il padre con le luci spente accanto gli stava
Spettacolo amoroso d’affetto filiale.
Un tugurio, la casa;
un giaciglio, il letto;
le carni del figlio, coltre del padre.
Sublimi voi siete,
ambulanti mendichi,
i ricchi spregiate
del mondo lordura.
Voi siete i Signori.
Tirituppo, il pezzente sgarbato
Originario non importa di dove, Tirituppo era esattamente l’opposto di Enricuccio e i suoi difetti, anche fisici, sopravanzavano di gran lunga quelli di tutti gli altri pezzenti conosciuti della zona. Era basso di statura, di corporatura macilenta e si appiattava agli angoli delle vie muovendosi, di tanto, come una lumaca… solo per assalire qualche malcapitato passante col suo provocatorio: “Tu mangi e io no!”.
Alquanto fuliginoso era il suo viso, con una barbetta che pareva un cespuglio bruciacchiato, che spuntava da una lurida sciarpa, avvolta alla meglio intorno ad un collo tozzo; sul capo portava, in permanenza, un caratteristico berretto scuro. Molto sporgenti erano le sue labbra bavose, come quelle di un beduino, che lasciavano intravedere una dentatura che sembrava un borgo saccheggiato e abbandonato a se stesso.
Tutta la sua persona emanava un odore nauseabondo che richiamava dintorno, talvolta, cani e gatti affamati, che il poveraccio metteva in fuga col suo bastone alla Charlot, al quale non aveva certamente nulla da invidiare in quanto alla disposizione dei piedi.
Litigioso per natura, attaccava spesso briga con i ragazzi che gli tiravano le pietre canzonandolo, a più non posso, con una filastrocca di parole che suonavano pressappoco così: “Tirituppo e mammeta allucca e sorete frive o baccalà”.
Di carattere assai sgarbato, a differenza di Enricuccio, pretendeva l’elemosina e, anche quando l’aveva, non ringraziava mai abbassando i suoi occhi felini per terra, pago forse (secondo lui) di questo diritto che gli spettava per la sua professione di povero. Ed era, in effetti, il povero per eccellenza, quello che si batteva, in fondo, più energicamente per questa (sua) condizione di disagio e di emarginazione, anche se a suo modo.
Sfortunate erano quelle ragazze che avevano l’avventura d’incontrarsi con lui per la strada: dovevano scappar via in fretta perché i suoi improperi sfociavano, quasi sempre, nell’oscenità.
Anche la vita di Tirituppo, come quella di Enricuccio, che, quando lo incontrava, filava diritto dicendo “Ognuno tene l’anema soia”, era costellata di storielle, sostanzialmente frutto della fantasia (o meglio della malignità) popolare.
A questo nostro chiacchierato pezzente, su cui la natura si era accanita, per quanto ci è dato sapere, pare nessuno abbia dedicato niente.
Cipollone, il pezzente bizzarro
Quasi del tutto dimenticata è un’altra figura di pezzente nostrano che, a suo tempo, faceva molto parlare delle sue estrosità: Cipollone.
Nome a parte, era questi di media statura e dal viso rubicondo e si aggirava per le nostre contrade con un robusto bastone di legno con appesa alla punta una grossa cipolla, a suo dire, simbolo del proprio casato. Un casato senz’altro immaginario, antico come la stessa cipolla che portava a spasso, che costituiva per lui un’insolita attrazione e, quindi, uno strumento di vita.
Spassose erano le sue disquisizioni sul termine “cipolla” e derivati, come cipollette, cipolline, cipollacce per finire alle “cipollone” a voler giustificare da esse l’origine della sua “nobile” stirpe. Una stirpe di tutto rispetto (sembra che Cipollone fosse proprio il suo cognome), destinata a sfidare i secoli, che aveva a che fare con il palato degli umani e perciò con l’arte culinaria, con il cibo, con le mense imbandite e via di questo passo.
E queste sue bizzarìe erano, di frequente, oggetto di scherno da parte del prossimo che, quando lo vedeva, così lo apostrofava: “Cipollone, o riavulo ndo bastone”. Parole che lo facevano inviperire al punto da agitare freneticamente il bastone nell’aria, intorno a cui si avvolgeva la “povera” cipolla che finiva, quasi sempre, col volare sfociandosi per terra, tra una risata generale.
“O vire, ce sta o riavulo ndo bastone” continuava la gente e Cipollone, sempre più adirato, faceva roteare di più il suo bastone minacciando gli schernitori. E la scena si ripeteva all’infinito fino all’esaurimento delle forze dei presenti che, quando non ne potevano proprio più, si allontanavano in direzioni diverse.
Anche di questo personaggio nessuno ha mai parlato, tanto che se n’è persa perfino la memoria.
I minori
Accanto ai personaggi sopra ricordati, se pur brevemente, ve n’erano tanti altri che potremmo definire “tipi minori”, il cui nomignolo non sempre varcava i limiti rionali.
Tra il Duomo di Aversa e la monumentale Chiesa di santa Maria a Piazza si aggirava, per dirne qualcuno, Ciro “o luongo”, un omone dal volto triste e sofferente (una specie di mostro locale di Notre-Dame) che veniva chiamato per pesanti lavori di facchinaggio nelle vicine parrocchie e nelle case. Quando questo individuo incontrava qualcuno, soleva, quasi sempre chiedergli: “A tenite na mela?”; e lo faceva a testa bassa, timorosamente.
Poco più distante, nella zona di san Giovanni, vi era un’altra tipica figura, Niculina “a pazza” che, per il suo carattere troppo irascibile, si presentava allo scherno degli abitanti del luogo.
E poi c’erano ancora “Centura”, Ciccio “afigurella”, “O piattaro e Caserta”, personaggi molto popolari, all’epoca, più degli stessi politicanti, che, non avendo una dimora fissa, passavano da una casa all’altra rubandoti alla monotonia qualche attimo della giornata.
Articolo a cura di Antonio Marino già pubblicato sulla Rivista Culturale “Consuetudini Aversane” Anno II n.3 1988